In questi giorni televisioni, radio, giornali ci hanno inondato di messaggi e riflessioni attorno a Giovanni Paolo II: alcuni seri, al di là del fatto che si potessero o no condividere, altri banali, una celebrazione retorica e vuota del Papa appena scomparso. È presto, dietro l’onda dell’emozione, per definire un bilancio approfondito di un pontificato che, anche solo per la durata, è il terzo – dopo San Pietro e Pio IX – nella storia bimillenaria della Chiesa.
Un primo elemento di riflessione: l’ampiezza della partecipazione al dolore, che sale dai punti cardinali del mondo. Non solo i cattolici o i cristiani, ma gli ebrei, i musulmani, i seguaci di altre fedi e di quanti sono lontani da ogni fede.
Vi dovrà pur essere una ragione se questo Papa, che ha unito nella sua persona la Chiesa cattolica, è riuscito a fare convergere su di sé – non sappiamo per quanto tempo, ma rappresenta comunque un fatto inedito e straordinario – anche il rimpianto ed il rispetto generale del mondo. Azzardo delle spiegazioni. Questo Papa, intransigente sui principi della sua fede, ha saputo parlare agli uomini, ha voluto rivolgersi a tutti gli uomini. Tutti sentiamo che è stato decisivo il suo contributo per arginare il rischio di un conflitto tra civiltà, di una guerra tra religioni.
Gli incontri con le altre confessioni religiose ad Assisi sono stati finalizzati anche a questo obiettivo: rendere le religioni, tutte, protagoniste di un cammino di pace, di riconciliazione. Lo stesso significato simbolico della prima volta di un Papa in una sinagoga e in una moschea; la stessa richiesta di perdono agli uomini, nell’anno del giubileo, per gli errori e le colpe della Chiesa nel corso della storia, per i suoi momenti di distacco dal messaggio evangelico, occorre considerarli in questo quadro. Le persone si rendono in qualche modo conto e sono riconoscenti per questo dono prezioso, fatto da Giovanni Paolo II al nostro tempo, in un difficile passaggio di secolo. È questa capacità che ha reso il Papa della Chiesa cattolica, leader morale riconosciuto nel mondo, voce autorevole in difesa dei diritti umani, della libertà, della pace.
Mi pare ozioso discutere se anche senza Karol Wojtyla l’Europa avrebbe coronato un suo percorso di riunificazione, se il cosiddetto socialismo reale sarebbe crollato, se i popoli dell’est avrebbero cessato di vivere in regimi a sovranità limitata e così facendo avrebbero contribuito a rendere più forte e reale anche lo spazio di autogoverno nell’ovest. La storia non si fa con i “se” e con i “ma”. Giovanni Paolo II è stato decisivo non solo per superare quei regimi, ma anche per determinare che quel processo avvenisse in modo non violento, come una grande rivoluzione pacifica e democratica. Per questo esito è giusto non dimenticare il ruolo fondamentale svolto anche dallo “sconfitto” Michail Gorbaciov.
Vittorio Messori sul Corriere della Sera ha fatto una considerazione, che mi ha colpito: il Papa, in cuor suo, avrebbe sperato su di una possibile riformabilità dei regimi dell’est. Su di una immissione in essi di pluralismo politico, culturale, di libertà religiosa, che è poi parte integrante della libertà senza aggettivi. Non so se sia davvero così. Certo è che il Papa ha sviluppato, con una continuità e coerenza che non sono state interrotte dalle rivoluzioni nell’est alla fine degli anni ottanta, una critica al consumismo, al materialismo, alle varie forme di oppressione della dignità umana, ovunque si manifestassero. Non ha certo risparmiato le opulente società del capitalismo maturo.
Su questo terreno oggi è sfidato il pensiero laico, la sua capacità di stare in campo con una capacità critica nei confronti delle società, della organizzazione ingiusta del mondo, della redistribuzione delle ricchezze, delle finalità stesse dello sviluppo.
Anche se non si hanno tutte le risposte, non si può fare tacere almeno la denuncia, la forza di una critica.
Né si può rinunciare ad avere valori, che orientino e diano anima ai programmi.
La cultura laica progressista – e con questo termine intendo sia quella che ha a suo riferimento anche convinzioni religiose, sia quella che ne prescinde – deve costruire, innovando, una base comune condivisa di valori, per le società del nostro tempo. Ed è necessario uno sforzo vero perché i comportamenti concreti, l’agire quotidiano, corrispondano ai valori che si affermano.
Faccio un esempio. Noi abbiamo cessato di esercitare una valutazione di merito sugli effetti dello sviluppo e soprattutto su quello che chiamiamo consumismo. Esiste in noi una sorta di acriticità, che ci porta spesso a confondere consumismo e benessere. Non possiamo lasciare alla sola Chiesa od alle altre confessioni religiose, la critica di un uso distorto dei beni, che distrugge le risorse, aumenta le distanze tra ricchi e poveri, non arricchisce di senso la vita, impoverisce l’esistenza privandola di ogni significato etico.
La lotta, ovunque, per sconfiggere le povertà, non è credibile se non si accompagna ad una riclassificazione, anche culturale, delle priorità e delle vie per uno sviluppo diverso, in grado di assicurare ad ogni persona ed ai vari popoli, la realizzazione di opportunità per una vita degna di questo nome. Vedo la stessa costruzione politica dell’Unione Europea, come quella di un soggetto sovranazionale, che si ponga come protagonista di una globalizzazione non liberista. Senza l’Unione Europea, anche una volontà politica ed un orientamento culturale prevalenti rimarrebbero impotenti ad agire.
Quando il Papa, vecchio e malato, ha continuato a parlare di principi della fede, di messaggio evangelico, di lotta alle povertà, di valore della persona ed ha messo sé stesso, ad ogni costo, al servizio di questa missione, il suo linguaggio ha assunto una forza e credibilità ancora più grandi, forse inusitate.
La malattia, la vecchiaia, bandite e nascoste dalle televisioni e nel senso comune delle società consumistiche, venivano assunte senza timori o ipocrisie e diventavano straordinaria e convincente occasione di testimonianza, che parla a tutti, in primo luogo ai giovani.
Infine, un’ultima considerazione: Giovanni Paolo II ha fatto un grande dono all’Italia. Il Pontefice venuto da lontano non si è occupato particolarmente di politica italiana. Ha accompagnato il superamento del partito di riferimento dei cattolici. Non ha, in Italia come altrove, attribuito ad alcuno deleghe di rappresentanza da parte della Chiesa, ma fatto svolgere ad essa una funzione diretta sui temi che le sono propri.
È stato un passo coerente con il Concilio Vaticano II ed importante per il nostro paese.
Occorre ribadirlo oggi, quando alcuni, anche a sinistra, sbagliando, sembra addirittura vagheggino una Chiesa che si rapporti ancora alle questioni di interesse collettivo attraverso un partito, oppure che si rifugi nel privato dei cuori o nel silenzio.
La via giusta è invece quella del pluralismo nelle scelte politiche per i credenti, e di una diretta assunzione di responsabilità da parte della Chiesa (come delle altre confessioni religiose) sui temi sociali o della bioetica.
Senza imporre, senza interferenze, ma anche senza silenzi.
E’ da augurarsi che il prossimo Pontefice, italiano o meno, tenga ben ferma questa rotta.
È da sperare, che anche da parte nostra, si cessi di guardare alla Chiesa e di leggere le sue concezioni ed iniziative, attraverso le categorie “destra o sinistra”, che sono proprie di un’altra dimensione, quella della politica.
Tutto ciò se vogliamo sforzarci di capire. Il che è fondamentale per ogni dialogo serio, oggi più che mai necessario.

Vannino Chiti
Roma, 6 aprile 2005