Occidente? É proprio vero che il XXI secolo si è aperto in modo assai più negativo di ogni pur pessimistica previsione? Certo questi anni sono stati segnati da guerre, da un’inedita sfida globale del terrorismo e i conflitti tra nazioni che avevano caratterizzato in particolare la seconda metà del Novecento – in primo luogo quello tra arabi e israeliani – sembrano avere assunto un aspetto di ingovernabilità, di quasi impossibile soluzione.
Di fronte a 1. Il nostro tempo è caratterizzato da uno scontro di civiltà tra Islam e questi scenari, alle diseguaglianze che crescono, appare come dimenticato quello straordinario processo di liberazione dei popoli che vide in Europa, sul finire degli Anni Ottanta, la caduta della cortina di ferro, il crollo dei regimi del cosiddetto socialismo reale, il superamento dei blocchi militari contrapposti.
Alla fine di tale fase storica non ha però corrisposto la ridefinizione e la riforma degli organismi internazionali, che sovrintendono al governo del mondo. É in questo vuoto che più agevolmente si è inserita l’offensiva della destra americana sostenitrice dell’unilateralismo USA, come perno delle relazioni nel pianeta.
La chiave di lettura per comprendere il nostro tempo sembra divenuta quella di uno scontro di civiltà tra islam e occidente, subentrata alla contrapposizione Est-Ovest, Unione Sovietica-Stati Uniti, che aveva segnato gli ultimi quarant’anni del secolo appena trascorso.

2.
É proprio così? É giusto un approccio di questo tipo? Riconosco che il contrasto tra civiltà rappresenti un rischio possibile. Al tempo stesso una tale impostazione mi parrebbe parziale, insufficiente e perciò inadeguata. Presupporrebbe una equazione Terzo Mondo = sottosviluppo = islam = terrorismo assolutamente non corretta.
La caduta dell’URSS, con il venir meno della logica dei blocchi militari contrapposti, e il fallimento dei tentativi di socialismo arabo, hanno prodotto, di fronte ad un mondo incapace di redistribuire in modo equo la ricchezza e di diffondere lo sviluppo, una forte spinta ad un uso politico dell’islam. L’islam tuttavia è qualcosa di complesso, non riducibile ad una teoria di fondamentalismo violento, ad uso dei disegni della nuova destra.
É vero che in questa fase il terrorismo è prevalentemente di natura islamica: il terrorismo però si nutre di fanatismo ed il fanatismo, nel mondo, non è solo quello islamico. Il fanatismo è l’assolutizzazione, la sacralizzazione di un principio. Da che mondo è mondo, ogni sorta di fondamentalismo identifica “il vero fondamento” della “vera dottrina”, in una citazione religiosa estrapolata dal contesto, quando non stravolta da un’interpretazione fatta a suo uso e consumo.
Ha scritto Amos Oz ( ): “è una battaglia tra fanatici convinti che il fine, qualunque sia questo fine, giustifica i mezzi, e noi altri, convinti invece che la vita sia un fine, non un mezzo… Noi pensiamo che la vita venga prima di tantissimi altri valori, convinzioni, fedi. L’attuale crisi del mondo, in Medio Oriente, in Israele-Palestina, non riguarda i valori dell’islam. Non riguarda la mentalità degli arabi, come sostengono alcuni razzisti… É l’antico conflitto tra fanatismo e pluralismo. Tra fanatismo e tolleranza. Attenzione a non fare seguire al XX secolo, l’XI!”.

3.
Il terrorismo, che usa la violenza contro le popolazioni civili per fini di potere, è in contrasto con la dottrina islamica. Il Corano raccomanda espressamente ai guerrieri musulmani di non fare del male a donne, vecchi e bambini: figuriamoci se vi possa essere giustificazione per stragi di inermi, compresi altri musulmani.
Quanto poi al martirio, la dottrina islamica afferma che Dio chiede al musulmano soltanto ciò che egli può dare, ciò che è in grado di fare; niente che sia al di sopra delle sue possibilità. L’incitamento alla distruzione di sé non fa parte dell’islam né è questa la chiave di lettura con la quale interpretare la promessa che chi muore per l’islam andrà direttamente in Paradiso.
Sono i movimenti fondamentalisti che stravolgono la dottrina islamica per ottenere formule semplici, di forte impatto e immediata comprensione, in modo da avere maggior presa sui musulmani.
È il fondamentalismo terroristico che nega la valenza del jihad (tradizionalmente “sforzo sulla via di Dio”, non necessariamente armato) come cammino religioso e morale, trasformandolo nella sola “guerra santa”.
É questo che incita a combattere per distruggere l’occidente infedele, dimenticando la tolleranza e il rispetto che il Corano riserva ad ebrei e cristiani.
È Al Qaida, in particolare, che recupera un filone di pensiero, corso lungo l’arco degli ultimi tre secoli in Arabia Saudita, che stabilisce un nesso tra la decadenza dei costumi e l’infedeltà alla religione islamica.
Su questo nucleo teorico aggiornato, il fanatismo terroristico considera il musulmano che ha abbandonato i puri principi della sua religione alla stregua dell’infedele, legittimando in tal modo l’assassinio anche dei musulmani.
La svolta, che ha reso più agevole questo corso, si è avuta attorno al 1979, in seguito all’invasione sovietica dell’Afghanistan. É proprio in riferimento all’Afghanistan che viene dichiarata la prima Jihad in senso fondamentalista moderno.
Nell’islam vi è poi una concezione del tempo, con la quale è necessario confrontarsi. Nell’islam il tempo è visto come un processo di decadenza, di allontanamento dalla “fase aurea”, quella della vita e dell’insegnamento del Profeta. Il futuro di per sé non porta a niente: la fiducia in esso può fondarsi solo sulla scelta di fare del futuro una specie di ritorno al passato, di recupero della purezza, della tradizione, degli insegnamenti trasmessi al nascere della religione musulmana. L’occidente viene visto come soggetto di sfruttamento economico, di impoverimento delle nazioni arabo-islamiche, come artefice di una decadenza dei costumi e corrompimento morale.
In questa situazione ed in una concezione del tempo, nella quale il futuro appare come portatore di processi negativi, trova un suo fondamento anche il successo della propaganda fondamentalista e terrorista per l’autodistruzione

4.
Il fatto è che noi tutti e le nostre scuole, con la formazione che impartiscono, siamo dentro orizzonti culturali rigidamente delimitati dall’eurocentrismo. Altrove, nel mondo, si studiano Rinascimento, Umanesimo, i fondamenti della storia europea: è vero che per un lungo tratto la storia del nostro continente è stata determinante per quella del mondo, ma Cina, India, Giappone, mondo arabo – le loro culture e religioni – sono attori protagonisti e non comparse nel XXI secolo.
Delle società islamiche, in particolare di quelle arabe, si dice che sono caratterizzate da subalternità della donna, assenza di laicità nella vita e nell’organizzazione dello Stato, mancanza di una vera democrazia e di un pieno rispetto dei diritti umani.
Tutte le religioni, comprese le tre grandi fedi monoteiste, hanno in sé principi che sanciscono la subalternità femminile: la rivelazione viene narrata in contesti storicamente datati, ad espressione di società maschiliste e patriarcali. Ne è testimonianza, nella Bibbia, l’Antico Testamento, ma anche nel Nuovo – si pensi ad esempio a San Paolo ( ) – la condizione della donna è di indiscutibile sottomissione all’uomo.
Del resto ancora oggi, dopo il Concilio Vaticano II, nella Chiesa cattolica è presente un confronto sul ruolo della donna, la cui funzione è tuttavia non uguale a quella dell’uomo: le è precluso, ad esempio, l’accesso al sacerdozio.
La laicità, come principio fondatore dell’autonomia della politica e dello Stato, non è maturata all’interno delle confessioni religiose, ma si è imposta storicamente dall’esterno, dalla società: è un lungo, a volte tortuoso processo, che si snoda nell’evo moderno a partire dall’Umanesimo ed ha un suo culmine nell’Illuminismo, nella Rivoluzione francese, nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo.
Non vi è dubbio che il mondo islamico risulti appena sfiorato da questi avvenimenti e dal processo di secolarizzazione che li accompagna.
L’islam chiama i musulmani ad essere fedeli in primo luogo alla loro religione, e solo in seguito al paese in cui vivono. Ciò significa che, lungi dall’essere autonoma, la dimensione statale è vista come subordinata a quella religiosa.
Lo stesso Stato di Israele, certamente democratico, subisce condizionamenti, dovuti ad una identità storica che si è fortemente intrecciata con l’aspetto religioso, tanto che si è parlato di una laicità parziale. Ciò non solo per la presenza e l’influenza di partiti politici religiosi, ma anche per talune differenze nei diritti-doveri della cittadinanza.
Solo con Gesù si è avuta, alle origini del cristianesimo, una rottura radicale rispetto al rapporto tra potere spirituale e potere temporale: “date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”.
Per lunghi secoli, però, la Chiesa cattolica ha esercitato in modo diretto il potere temporale, così che lo stesso cattolicesimo ha smarrito il riconoscimento dell’autonomia della sfera politica da quella religiosa. Sarà il Concilio Vaticano II a fare propri questi presupposti fondamentali della modernità, dopo che a lungo si erano rifiutati e combattuti.
Uno Stato confessionale non è compatibile con la democrazia. Senza laicità non viene meno la sacralità del potere: dunque non esiste il diritto al dissenso né la piena libertà per le minoranze religiose o culturali.
Certo la società deve lasciare spazio alla ricerca della dimensione del sacro, senza pretendere di limitare l’espressione pubblica o comunitaria dei vari culti religiosi. Il potere però, in democrazia, si fonda sulla sovranità dei cittadini.

5.
Una differenza fondamentale rispetto all’islam è, a mio avviso, la capacità dell’ebraismo e del cristianesimo di rielaborare l’interpretazione della dottrina, ferme restando le verità di fede, alla luce dei processi storici e dei rapporti con la modernità.
Sulla strada dell’islam vi sono alcuni ostacoli, non facili da rimuovere. In primo luogo a differenza della Bibbia, che è ispirata da Dio agli uomini, il Corano è dettato direttamente da Dio stesso al profeta Maometto.
Ciò conferisce a questo Libro sacro un’aura d’intoccabilità che pone notevoli problemi in sede di interpretazione.
Inoltre, bisogna ricordare che l’islam è una religione nel senso orientale del termine: è un insieme di dottrine spirituali, norme di comportamento, giuridiche, etc. Secondo l’islam religione e legge, potere spirituale e statale non sono né devono essere separati. A differenza del cristianesimo, l’islam (ma anche l’ebraismo) pone l’accento sulla pratica, sul rituale da osservare, non principalmente sulla fede come atto interiore e personale. La concezione dell’individuo che ne deriva è assai diversa da quella occidentale: nelle società islamiche tradizionali il valore dell’individuo è indissolubilmente legato alla sua presenza nella comunità. L’individuo non ha valore in sé, ma in quanto inserito nella dimensione comunitaria.
Al tempo stesso lo Stato nazionale risulta essere un concetto importato dall’occidente, dopo il crollo dell’Impero Ottomano. Per l’islam il riferimento fondamentale è il califfato, una forma di governo al cui vertice è collocata una figura al tempo stesso di capo religioso e politico per la comunità dei credenti.
Si tenga a mente la questione dello Stato nazionale: la sua fragilità nel mondo arabo-islamico è legata da un lato ai principi religiosi, dall’altro all’esperienza storica che lo ha fatto conoscere in relazione all’epoca sofferta del colonialismo.
Il rafforzamento dell’autonomia e dell’autorevolezza dello Stato, la costruzione della sua laicità, la sua democratizzazione sono i passaggi cruciali per un incontro con i cardini della modernità, compreso il rispetto dei Diritti umani.
Un islam nazionale mi sembra dunque l’obiettivo da realizzare: non solo per i paesi arabi, ma anche per quelli europei, nei quali ormai risiedono milioni di musulmani.

6.
L’operazione che viene costruita in occidente, ad opera di circoli culturali e politici della destra, tesa a stabilire una identificazione o quantomeno una vicinanza tra islam e terrorismo, è del tutto priva di fondamento. La sua conseguenza pratica è una strategia incapace di sconfiggere il terrorismo internazionale e spesso responsabile, all’interno delle nazioni, di scelte di governo che non sono in grado di realizzare una integrazione tra le varie componenti sociali, culturali, religiose.
Il terrorismo, anche quello globale, si sconfigge prima di tutto isolandolo, togliendogli ogni rete di consenso o anche solo di giustificazione, di equidistanza. L’accoglienza agli immigrati musulmani, la possibilità, offerta loro della piena titolarità della cittadinanza, con i diritti e i doveri connessi, rappresenta un’occasione importante per il successo di una tale strategia, oltre a costituire un fondamentale aspetto di giustizia e di democrazia.
É indispensabile costruire un islam italiano; occuparsi della formazione degli imam; definire rapporti trasparenti di collaborazione tra Stato e comunità musulmane. Il governo di destra, a causa delle insulse pregiudiziali ideologiche imposte dalla Lega, è incapace di attuare questa impostazione.

7.
Il XXI secolo può assumere come centrale l’impegno per estendere ovunque affermazione dei diritti umani, libertà, democrazia.
La democrazia non è un optional, agitato a vantaggio degli interessi occidentali. La democrazia è un valore in sè. Senza libertà e democrazia, nel mondo globale, non vi può essere nè sicurezza e ripudio della guerra, nè progresso nelle condizioni di vita, anche materiali, dei popoli, nè uno sviluppo sostenibile, finalizzato cioè a promuovere la dignità delle persone e coerente con la salvaguardia e valorizzazione, per oggi e per domani, della “salute” del nostro pianeta.
Qui deve aversi una prima innovazione nella cultura politica: lotta per la giustizia, contro le povertà e affermazione della libertà e della democrazia sono inseparabili.
Potranno dunque variare le forme e gli istituti nei quali, nelle diverse nazioni, si realizzerà la democrazia. Ovunque, tuttavia, un regime democratico sarà caratterizzato da alcuni principi, costitutivi e irrinunciabili: suffragio universale maschile e femminile; elezioni libere, competitive, ricorrenti, corrette; pluralità dei partiti; diverse e alternative fonti di informazione; separazione tra i poteri dello Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario).
“Se non vi fosse oppure venisse a mancare anche uno solo di questi aspetti, non si sarebbe più in un regime democratico, ma in un altro assetto politico-istituzionale, magari intermedio e caratterizzato da incertezza ed ambiguità…” ( )

La sinistra deve sentire come principi propri ed assumere come una stella polare irrevocabile i diritti umani, la libertà e la democrazia. Sulla base di questi valori costruire le sue strategie, i suoi comportamenti, contribuire ad una riforma dell’ONU e degli altri organismi nei quali si esprimerà il governo multilaterale del mondo, mettere al primo posto del suo programma la costruzione dell’Unione Europea come potenza politica di pace.
La nuova destra americana afferma di assumere anch’essa democrazia e libertà come assi di una strategia mondo, in questo nuovo secolo.
Non per questo bisogna rifiutarsi di capire, ritrarsi, dubbiosi o pentiti. Si tratta invece di rendere più forti le nostre coerenze e di superare alcune difficoltà che paralizzano la nostra azione.
Incalzare la destra, in USA e in Europa, sulla contraddizione che oggettivamente esiste tra priorità assegnata alla libertà ed alla democrazia, approccio unilaterale al governo del mondo, visione imperiale degli interessi americani ed occidentali, scelta della guerra preventiva. Il fallimento di questa impostazione è davanti ai nostri occhi: l’Iraq dimostra che per questa via non si sconfigge neppure il terrorismo.
La sinistra però non può limitarsi a sostenere libertà, democrazia, diritti umani “in un paese solo”, rovesciando l’internazionalismo ideologico di un tempo, generoso anche se subalterno al ruolo guida dell’URSS e per lunghi tratti anti-USA, in una scelta di non interferenza, che la rinchiude all’interno degli Stati nazione e dei paradisi di benessere dell’occidente. Per quanto nobilmente motivata con il rifiuto – giusto – della guerra, questa impostazione renderebbe la sinistra marginale e incapace di influire sui destini e le sfide del mondo. Bisogna riempire di contenuti una “politica preventiva” e renderla davvero capace di promuovere diritti umani, giustizia, democrazia.
É necessario assumere il rifiuto di impostazioni, per le quali i confini nazionali ed il loro sacro rispetto mettono al riparo i dittatori e consentono loro di reprimere le minoranze, addirittura di sopprimerle. É indispensabile mettere a fuoco quando e come siano consentiti interventi di polizia internazionale o di ingerenza umanitaria. Certo in nessun caso quelle decisioni sono riconducibili, per essere giuste e necessarie, a criteri di arbitrio, venire assunte da un paese solo o dall’alleanza di Stati militarmente più forti. Mi propongo di tornare nel merito di queste ridefinizioni, per me necessarie e urgenti. É già importante se a sinistra riconosciamo che anche di questo, e forse prima di tutto di questo, si deve discutere, se vogliamo davvero che il XXI secolo sappia dare vita a relazioni di pace e di cooperazione tra i popoli. Senza diritti umani (la giustizia sociale ne è parte integrante), libertà e democrazia non vi può essere la pace. Nel migliore dei casi avremmo periodi di non guerra.
Non può bastarci. Non basta al mondo.