Alcune considerazioni in merito al referendum sulla fecondazione assistita: non mi piace il clima che si sta creando, quella specie di contrapposizione “Chiesa cattolica – resto del mondo”.
Non è giusto per i credenti cattolici, nella loro responsabilità di vivere in modo coerente ma autonomo le scelte di ordine temporale. In questo ambito le gerarchie legittimamente esprimono valutazioni e indirizzi, ma senza imprimervi un marchio di obbedienza di fede. Né devono dare anche solo l’impressione di farlo, suscitando una confusione dannosa ed in contrasto con i principi del Concilio Vaticano II, ben prima del nuovo Concordato.
Né è positivo per la nostra convivenza che tornino ad alzarsi vecchi steccati, arcaiche e fuorvianti divisioni tra credenti di diverse fedi religiose, non credenti, donne e uomini che in ogni caso mettono la laicità al primo posto nella vita politica e civile.
L’Italia è attraversata già da tante divisioni. Non sentiamo il bisogno di vederne inventate di nuove.
Da qui, una richiesta forte ad ognuno di noi: il referendum sia occasione per un confronto di merito, appassionato ma rispettoso.
Si evitino toni da crociata e si cessi di bollare come nemici della vita o agenti della reazione teocratica, a seconda dei casi, chi sostiene tesi diverse.
Prima di tutto deve essere tenuta ferma la responsabilità politica di questa situazione: è la maggioranza di destra che ha voluto approvare, come al solito senza un vero dialogo, una legge negativa su punti cardine, quali la salute della donna, la responsabilità della coppia, la libertà della ricerca scientifica.
Ed una grave responsabilità se la sta assumendo il governo, che gioca su temi di così grande rilievo una partita di piccolo cabotaggio e di meschina furbizia, non fissando la data della consultazione referendaria e determinando così nei fatti una scadenza, quella di giugno, che suona provocazione nei confronti della possibilità di una reale partecipazione al voto.
È legittimo sostenere nel referendum l’astensione anche dal voto, così da non raggiungere il quorum: quello che è inammissibile è l’aiuto surrettizio da parte del governo ad una delle scelte possibili.
Si è molto discusso sull’atteggiamento della Conferenza Episcopale italiana e del suo Presidente, il Cardinale Ruini.
Dissento da impostazioni che sognano una Chiesa del silenzio o che sembrano vagheggiare i tempi nei quali esisteva un partito di cattolici, verso il quale le gerarchie indirizzavano il voto ed al quale affidavano la rappresentanza politica delle loro istanze.
La Chiesa, le varie confessioni religiose hanno il diritto di esprimere in prima persona le proprie valutazioni, di sostenere le proprie convinzioni in merito a provvedimenti approvati o da approvare, di orientare il comportamento dei fedeli. Tanto più su temi che riguardino valori decisivi per le religioni, come quelli legati alla vita, o ai terreni ancora da esplorare della bioetica.
Non possono pretendere di piegare alle loro convinzioni di fede la legislazione dello Stato, che deve tendere al bene comune e non semplicemente ad una visione religiosa, fosse pure quella di maggioranza.
La laicità, per continuare ad essere un principio ispiratore non soltanto dell’ordinamento della Stato, ma anche dei cuori e delle menti degli uomini, cioè un cardine costitutivo della società, deve saper conservare uno dei due pilastri su cui la edificò il liberalismo, ma al tempo stesso aggiornare l’altro.
Dobbiamo mantenere integra l’autonomia dello Stato, condizione anche per una non interferenza nella vita delle Chiese. Aggiornare invece la concezione che vedeva l’esperienza religiosa solo come fatto privato e non anche nella sua dimensione collettiva.
L’esperienza storica ha cancellato una tale impostazione. Devono dunque essere costruite e non temute sedi ed occasioni per una visibilità delle Chiese, per una loro trasparente interlocuzione con le istituzioni dello Stato.
In questo quadro la vicenda del referendum assume una oggettiva specificità. Il tema della fecondazione, del formarsi della vita, appartiene, per la Chiesa Cattolica, al nucleo dei valori irrinunciabili. Non si è di fronte ad una normale, per quanto importante, campagna elettorale, ad una scelta per un partito o per uno schieramento.
Per questo non mi convince e mi pare rischioso un dibattito sulla legittimità delle scelte.
L’errore nella posizione dei vescovi consiste, a mio giudizio, nel tenere collegate due impostazioni, che si collocano su piani di iniziativa distinti: l’affermazione di principi e su questa base i giudizi sulla legislazione vigente; l’indicazione di comportamento nel referendum, come via efficace per salvaguardarla.
Se la Conferenza dei Vescovi dà indicazioni di voto, allora non può sottrarsi, con la motivazione che spetta alla Chiesa ribadire valori di fede e non altro, ad individuare vie d’uscita di merito, praticabili in Parlamento, necessariamente di positiva mediazione, come è compito della politica. Era sul tappeto – e vi sarà per quanto mi riguarda, anche dopo il referendum – la proposta di legge Amato, che rappresenta l’asse fondamentale lungo cui procedere per una organica ridefinizione della materia.
Questo compito tuttavia non può essere sottratto ai laici, cattolici o meno. Spetta alla loro autonoma responsabilità, non solo la scelta in merito alle leggi, la difficile mediazione tra principi, di fede o comunque etici, e la quotidianità della politica, ma anche i modi con i quali stare in campo nelle competizioni, referendum compresi.
Non giova alla Chiesa compromettere la sua vocazione universale schiacciandosi su di una parzialità, vissuta e sentita come ideologica, e a rischio di strumentalizzazione ad opera di una destra, che fa del cinismo, non della valorizzazione della vita, la sua ragion d’essere.
Resta il fatto, non sottovalutabile né esorcizzabile con dietrologie attorno a impossibili ricostruzioni di partiti cristiani, di una forte e diffusa unità attorno a valori come la vita, la famiglia, la pace, di un’area cattolica ampia e politicamente pluralista.
Non è il vecchio che ritorna, ma il nuovo che avanza. Quando dico nuovo, non intendo esprimere una valutazione acriticamente positiva o ignorare rischi e incognite. So bene che in questa unità ed all’interno del pluralismo ormai affermato nelle scelte politiche, si muovono orientamenti diversi: quelli di un cristianesimo che si sente minoranza numerica nel mondo secolarizzato, ma vuole impegnarsi per essere lievito della società e contribuire a formarne gli orientamenti morali e civili. E quelli di un cristianesimo che vede, nel contrasto tra le civiltà e nel ruolo dell’Islam, gli spazi per riaffermare una egemonia, all’interno delle democrazie occidentali, soprattutto quelle europee, ritenute deboli ed incerte.
Più al fondo vi è il bisogno di ridefinire, per la vita e la politica, alcuni valori fondamentali, portatori di senso.
L’esito di tutto ciò dipenderà anche da noi. Non credo abbia grande futuro una sinistra irriconoscibile rispetto ad impostazioni di tipo radicale. Non si tratta di avere verso di esse preconcetti ma neppure di abbandonarsi a coincidenze identitarie.
Per noi la libertà deve accompagnarsi alla responsabilità verso gli altri e verso lo stesso ambiente di vita. Per noi la priorità persona – troppe volte sacrificata e umiliata nei totalitarismi del secolo che è alle nostre spalle – deve trovare un equilibrio coerente con la dimensione comunitaria e non precipitare in un egoismo edonistico. L’individualismo assolutizzato è l’orizzonte ideale delle destre, non il nostro.
La società oggi ha bisogno di dotarsi di un minimo comun denominatore condiviso di valori.
Lo richiedono le sfide inedite posteci dalle tecnologie e dalla bioetica, dai mutamenti demografici e dal formarsi di società multietniche e multiculturali.
Ricostruire insieme, credenti e non, valori a fondamento della nostra convivenza, è il compito che ci attende. Proviamo ad esserne all’altezza.

25 marzo 2005