«In un tempo povero di memoria è importante ricordare il significato dell’Ottantanove… Sarebbe ingiusto, pur con le contraddizioni che ne sono talora seguite, svalutare il peso simbolico e storico del crollo del muro». Lo scrive Severino Saccardi, direttore di Testimonianze, che ha curato sulla rivista una sezione monotematica: 15 anni dopo il muro. Vi si leggono interventi diversi per impostazione ma tutti di grande interesse: da Marcello Flores a Claudia Mancina, da Predrag Matvejevic ad Adriano Sofri e Filippo Gentiloni, tanto per ricordare alcuni nomi. Vorrei cogliere alcuni spunti, nella ricchezza di sollecitazioni offerte dal fascicolo.
In primo luogo, come sottolinea fin dall’inizio Saccardi, gli ottantanove sono due: “quello dell’esplosione democratica dell’Europa centro-orientale e quello della repressione cruenta in piazza Tien An Men”. Che cosa differenzia le folle festanti della Cecoslovacchia, della Polonia, quelle di Berlino che schiantano la barriera che divide in due la città e la nazione, dai giovani cinesi, che prima innalzano la statua della Libertà e poi macchiano con il loro sangue la piazza della Pace Celeste? Una delle ragioni, forse la ragione principale è l’irrompere nella storia del “fattore Gorbaciov”.
Quindici anni dopo Gorbaciov è quasi dimenticato, nel suo paese addirittura messo ai margini, perché considerato responsabile del crollo di un impero.
È la sorte che spesso la storia riserva a chi risulta sconfitto. Fu indubbiamente sconfitto Gorbaciov, perché non riuscì a portare a compimento la riforma dell’Urss e del sistema del socialismo reale. Al di là di errori e contraddizioni, certo presenti nella sua iniziativa, e del non aiuto da parte dell’Occidente (gli Usa volevano capitalizzare fino in fondo la vittoria nella guerra fredda), il processo innovatore di quelle società era da tempo divenuto impraticabile. Gorbaciov non aveva realmente di fronte a sé la via riformatrice: aveva invece la possibilità di un nuovo intervento duramente repressivo. «Fu anche il suo fermo orientamento, deciso a non replicare tragedie storiche già viste, a non reprimere i moti popolari con la forza e a non soccorrere regimi agonizzanti con i carri armati a far sì che le cose prendessero a scorrere con l’empito travolgente che le caratterizzò». Attorno a questo grumo di scelte dovrebbe infine aversi un’equa valutazione storica di Gorbaciov, tanto più se, come argomenta Sofri, «il nocciolo duro dell’esperienza comunista tradotta nella realtà dell’Unione Sovietica fin dal bolscevismo originario» era il culto della forza e l’ostentazione della potenza e della superiorità su di un «supposto nemico», l’esercizio della violenza senza remore di carattere democratico o libertario.
Certo l’Urss non c’è più, mentre la Cina sembra non solo aver conservato una saldezza, ma sta diventando una potenza economica mondiale. E tuttavia, al di là di pur fondamentali valutazioni etiche sulla violazione dei diritti umani, continua ad apparirmi del tutto fragile, una specie di gigante dai piedi di argilla, un capitalismo senza libertà e senza democrazia politica. È certo un’esigenza tornare a riflettere sulle forme della democrazia superando concezioni ingenuamente eurocentriche: ma non si dà nessuna democrazia politica senza elezioni libere, ricorrenti, a scrutinio segreto e suffragio universale; senza una pluralità di partiti; un’informazione realmente autonoma; la separazione tra i poteri. Per la Cina i nodi verranno al pettine, con lo sviluppo e la crescita del benessere. Rinviare i problemi non significa risolverli.
Dopo l’89 è nei fatti iniziato il processo di allargamento dell’Unione Europea o meglio, come lo definisce Matvejevic, di «riunione dell’Europa». Un processo né concluso né lineare. Non lineare ed anzi sconvolto dalla guerra nei Balcani e nel Kosovo: un conflitto spietato, frutto di uno «scatenamento dei propri demoni… in frontiere da sempre maltrattate ed anguste», di contrasti non solo tra etnie (prevalentemente si tratta di slavi) ma tra religioni e culture vissute come ideologie, tra divari economici consistenti ed una colpevole sottovalutazione, per tutta una fase, dell’Occidente, non più interessato all’unità della Jugoslavia come Stato «non allineato». La prospettiva di un complessivo ingresso della Jugoslavia nell’Unione Europea non fu giocata, ma resta oggi la sola, graduale via, per quanto ormai riferita ad uno spazio e non più ad uno Stato, per uscire da una situazione di «non guerra». E ancora Sofri ci ricorda dell’occasione perduta nell’aver consentito la repressione cruenta di una popolazione islamica europea, moderata e formata alla laicità dalla consuetudine all’esercizio della democrazia.
Non tutte le promesse che sembravano sicure nell’entusiasmo dei giorni delle liberazioni dell’est, si sono poi davvero realizzate. Resta incerta la situazione della Russia e di altri paesi del vecchio blocco del socialismo: ancora in questi giorni assistiamo alle tensioni che attraversano l’Ucraina. Matvejevic ha coniato per questi paesi la definizione di «democrature»: regimi che dicono «di voler costruire la democrazia ma somigliano, per tanti aspetti, ancora a delle dittature».
Naturalmente sarebbe un errore leggere come negativo tutto quello che si muove ad est o smarrire le differenze tra paese e paese: ancora Sofri sottolinea come in quelle società sia semplicemente in corso un fenomeno di normalizzazione. Dopo gli anni di lotta per la liberazione, la tensione morale che dipende dalla opposizione all’autoritarismo, dalla obiezione di coscienza costante, da una fede religiosa sentita, anche per il bisogno della società di identificarsi fuori dalle istituzioni dello Stato totalitario, «lascia il posto finalmente all’espressione normale dell’attività degli uomini», con gli aspetti di luce e di ombra che sempre, ed ovunque, vi si accompagna.
Il fascicolo ci consegna infine due altre problematiche di rilievo: la costruzione della dimensione politica dell’Unione Europea e la sua stessa configurazione attuale, nella quale il Mediterraneo rischia di non avere il peso di un’area cruciale, per demografia, incrocio di culture e religioni, contraddizioni economiche. Tutto ciò ci parla delle nazioni che ancora possono entrarvi, dell’importanza dell’appuntamento con la Turchia, ma anche di un interesse nazionale – vero e non gretto, cioè coerente con quello dell’Europa – da parte del nostro paese. L’Italia ha una funzione da svolgere nel Mediterraneo e per l’Europa, dal momento che è paese europeo e mediterraneo: solo che il governo Berlusconi, per il suo patto ideologico con la Lega Nord, non è in grado neppure di concepire una tale politica. E l’Italia, al di là delle roboanti affermazioni, diviene marginale.
L’altra questione è quella posta da Claudia Mancina: si possono non condividere tutte le sue argomentazioni e le conclusioni alle quali perviene, ma è difficile non essere d’accordo sull’osservazione che persiste nella sinistra europea un adagiarsi su vecchi schemi di lettura, inadeguati ad intervenire sul mondo nuovo che l’ottantanove ha prodotto. Questo stato di cose impedisce all’Europa di essere protagonista nelle relazioni internazionali e di costruire un progetto non subalterno a quello unipolare e conservatore, ma che fa i conti con le sfide del nuovo secolo, portato avanti dalla destra neoconservatrice americana.
La storia «non è finita e non finirà, e i conflitti nel mondo, ben lungi dall’essere cessati, si sono moltiplicati e differenziati. Tuttavia precipitare dal trionfalismo nel catastrofismo è una reazione inconsulta. Il nuovo mondo è complicato come e più del vecchio, ma non offre minori opportunità». La guerra fredda è stata l’epoca del realismo politico. La stagione che oggi viviamo può, con le sue ombre e i suoi rischi, essere quella «di un nuovo progetto… l’utopia realistica di un mondo di relazioni interamente globalizzate», della affermazione del mondo multipolare.
È questo l’obiettivo che la sinistra oggi deve saper porre.