Esiste per i cattolici un problema che riguarda l’incidenza dei loro valori nella società e nella politica? Sì, esiste ma posto così sarebbe riduttivo e porterebbe a esiti sbagliati rispetto ai compiti che ci si pongono.Esiste un problema più generale di affermazione dei valori di solidarietà, giustizia sociale, non violenza, fraternità, siano sostenuti da credenti, quale che sia il loro credo religioso, o diversamente credenti, per usare l’espressione giusta, quella consegnataci dal cardinale Martini. Attenzione poi a non restringere la riflessione, non inedita nel dibattito nel mondo cattolico, come opportunamente richiama mons. Frosini, e ora resa mediaticamente centrale dalla “provocazione” di Massimo Cacciari, al solo ambito elettorale e dunque dei partiti, perché in questo caso resteremmo al di sotto delle sfide da affrontare.

Lo dico subito, anche qui sulla stessa lunghezza d’onda di mons. Frosini e di altri, come Mariangela Maraviglia: non è più il tempo storico di partiti di ispirazione cattolica. Non vi sono più le circostanze eccezionali di una messa in discussione o a rischio delle libertà religiose. Per i credenti il pluralismo delle scelte nella sfera temporale, affidate alla loro responsabilità e libertà di coscienza, è irreversibile. Non vi potrà dunque essere un partito, un’associazione, un sindacato indicato come riferimento dall’autorità della Chiesa. Le lancette della storia non si possono riportare indietro ed è un bene per la Chiesa e per la società.

Questa conclusione significa allora prendere atto di un’indifferenza o irrilevanza nei confronti dei valori, rassegnarsi a non vederli praticati nella nostra convivenza, rinunciare a mettere in evidenza, per superarle, le contraddizioni tra principi affermati e comportamenti quotidiani, individuali e collettivi? No, per niente, ma secondo me il percorso da compiere è un altro, forse più impegnativo e complesso.

Il punto di partenza per me consiste in una frase di Papa Francesco: una frase breve, semplice, ma che contiene un’analisi lucida del nostro tempo e indica un orizzonte. Siamo in “una nuova epoca, non in un’epoca nuova”. Sta tramontando quella fase della storia che abbiamo chiamato modernità. Siamo immersi in una rivoluzione tecnologico-informatica che ha già cambiato modi di produrre, di formarsi, stili di vita, modelli culturali di riferimento. Lo ha già sottolineato Piero Bargellini: sono messi in discussione valori e loro implementazione. La globalizzazione che sta attraversando le nostre società non è guidata da un governo democratico, ma orientata dalle logiche della finanza che domina le persone e l’economia, lo stesso destino dei popoli.

Una nuova epoca significa che l’alternativa non può essere tra difesa di tutto il vecchio, delle tradizioni consolidate e una innovazione neutra, sempre buona e giusta, anzi unica. L’alternativa è quali innovazioni introdurre, accogliere, per quali finalità. In caso contrario a prevalere sarà-come già sta avvenendo- il controllo da parte di pochi su persone e natura. Il profitto senza scopi anche sociali, la competitività senza regole rendono le leggi di mercato non valide per la sola economia, e comunque da orientare al bene comune anche attraverso strumenti pubblici, ma guida assoluta dell’intera società. È la società di mercato, con la subordinazione dell’istruzione, della sanità, del diritto ad un lavoro degno e di una casa al possesso della ricchezza. L’economia dello scarto nasce da qui. Il primo problema, dunque, per me è quello di costruire un’etica mondiale condivisa da credenti e non credenti, secondo la proposta più volte e da molto tempo sollecitataci da Hans Kung. Oggi non c’è! I cattolici, meglio i cristiani, dovrebbero essere protagonisti, alla testa in questo impegno.

Quello da realizzare è un nuovo umanesimo e non è una sfida che si possa vincere solo attraverso una sistemazione teorica. Affermazione di valori, loro divenire orientamento dei cittadini, senso comune che indirizza la vita quotidiana, principi guida della politica, dei partiti e degli Stati, devono andare avanti di pari passo. Scrivere quali siano alcuni valori portanti della nuova epoca non è difficile: farli camminare nella convivenza del mondo è ben più complesso, ma urgente e possibile. Le priorità sono rappresentate dalla dignità della vita umana, che viene prima di ogni altra cosa e determina la qualità di una civiltà; dall’ecologia, così che lo sviluppo sia accettabile solo se socialmente e ambientalmente sostenibile; dalla non violenza, dal disarmo, da una cooperazione tra i popoli che dia fondamento alla pace. Questi orientamenti non prevarranno senza un apporto delle fedi religiose, perché bisogna non parlare a pochi, ma a molti; non convincere soltanto razionalmente le menti, ma al tempo stesso i cuori. Il dialogo interreligioso è fondamentale e ad esso in primo luogo-come in parte già sta avvenendo-devono dedicare passione ed energie i cattolici: non solo i vescovi e i preti, ma anche i laici con le loro associazioni, con la loro ricerca, con le loro opere.

L’Occidente, e dunque noi tutti, siamo per primi chiamati in causa. Nella storia non c’è un solo Occidente. C’è quello della tolleranza, della libertà e della democrazia, dei diritti umani e c’è quello delle guerre, delle persecuzioni, dell’odio razziale, dei nazionalismi aggressivi. Il nostro dovere, come ci ha insegnato padre Balducci, è quello di dare espressione, nella nuova epoca, all’Occidente che non tratta gli altri popoli come subalterni o nemici; che promuove non la scienza e le tecniche che distruggono il pianeta ma valorizza quelle che offrono potenzialità e speranza di futuro alle generazioni di oggi e a quelle che verranno; che considera il mondo un villaggio planetario, al quale assicurare un governo fondato sulla partecipazione consapevole e responsabile, sulla democrazia come ordinamento che permette il perseguimento del bene comune. Un bene comune nella dimensione globale.

L’Occidente per essere protagonista con gli altri continenti di questo percorso deve saper ridefinire secolarizzazione e laicità. La secolarizzazione è la riperimetrazione dei confini tra istituzioni della politica e dello Stato e quelle delle confessioni religiose, non l’emarginazione delle religioni come resti di arcaicità e superstizione. La laicità riguarda l’autonomia delle attività umane, la garanzia che non siano costrette a finalità non proprie ed estranee da parte di autorità politiche o religiose. 

Nei rapporti tra Stato e religioni, la laicità continua a fondarsi sulla reciproca non ingerenza, ma non può ancora pretendere di reggersi relegando la fede nel segreto dei cuori e nel riserbo delle coscienze. La democrazia deve organizzare sulla base delle sue regole la presenza pubblica anche delle religioni. Se le persone che professano una fede si sentono consegnate ai margini delle società contemporanee, se non vivono come legittima la loro religione e la pienezza della cittadinanza, è la democrazia a risultare indebolita, a rischiare un’eclissi. Non bisogna dimenticare che nel nostro tempo la democrazia è tornata ad essere sfidata. Non si tratta di questioni astratte rispetto al tema dei valori, in Italia e nel mondo, in questa nuova epoca che sta sorgendo. Al contrario è una delle condizioni per evitare all’Occidente la solitudine, per renderlo capace di comprendere i linguaggi con i quali si esprime e dialoga il resto del mondo. Senza questa attitudine non potrebbe esserci cooperazione, ma dominio o declino. Più facilmente quest’ultimo, se si presta attenzione ai dati della demografia, all’invecchiamento della sua popolazione, al basso tasso delle nascite, agli stessi andamenti dell’economia. Sarebbe un’illusione pensare oggi all’affermazione dei valori che ho richiamato concentrando le energie in modo prioritario sui partiti.

Oggi prioritaria è la società, perché c’è una cultura di vita da ricostruire. Poi vengono i partiti. Sottolineare che i partiti vengono “dopo” non significa sottovalutarne l’importanza, la funzione essenziale. Del resto non avvenne così nello scenario, ormai vecchio, della prima rivoluzione industriale? Prima nacquero le società di mutuo soccorso, gli istituti di credito cooperativo, i sindacati, poi si formarono i grandi partiti di massa, quello popolare e quello socialista. Non stanno operando, come sarebbe necessario, i centri di formazione civile: la famiglia, le parrocchie, i circoli ricreativi popolari, la scuola. Le ragioni sono diverse e non si possono in questa occasione affrontare nello specifico, ma anche da qui si deve concretamente partire. Soltanto pochissimi e schematici cenni. I circoli ricreativi popolari, di qualsiasi sigla, spesso non si distinguono dai normali bar commerciali. Non rappresentano più occasioni di civismo solidale, di integrazione tra vecchi e nuovi italiani, di crescita culturale. Lo stesso avviene di frequente nei mondi della cooperazione.

Nella scuola italiana non si studia e dunque non si apprende la conoscenza della nostra Costituzione: negli Stati Uniti si comincia a farlo alle elementari. Le famiglie stanno conoscendo difficoltà di ruolo, mancanza di condizioni materiali per una vita dignitosa, assenza di sostegni adeguati per realizzare al loro interno una socialità condivisa, essenziale per la stessa tenuta della società. Possiamo avere idee diverse sulla pluralità delle famiglie presenti nelle nostre società: dovremmo però trovarci concordi nel tutelarle, nell’aiutarle a vivere come una piccola comunità fondata sugli affetti. Anche i sindacati devono rigenerarsi, collegarsi almeno sul piano europeo, saper difendere il variegato mondo del lavoro cementando la solidarietà tra generazioni, occuparsi delle nuove figure, occuparsi dei precari perché il loro sfruttamento impedisce a tanti giovani ma non solo, di costruirsi il futuro. È indispensabile per me realizzare nelle imprese, come in Germania, strumenti di democrazia economica, che consentano la presenza nei consigli di amministrazione di rappresentanti dei lavoratori. Contratti di solidarietà, nei momenti di crisi, la stessa indispensabile contrattazione aziendale devono avere a loro base strumenti di partecipazione, che siano garanzia per i soggetti più deboli. Cruciale è la formazione, per avere un lavoro degno o ritrovarlo quando si sia perduto. In Italia purtroppo si continua a considerare una scuola di serie B, mentre dovrebbe essere una leva per promuovere competenze e giustizia. Nel procedere della rivoluzione tecnologica le macchine stanno sostituendo in molti settori le persone nelle attività di lavoro. Per questo la formazione è decisiva e indispensabile. Al tempo stesso non è sufficiente, se non riusciremo a restituire al lavoro la sua funzione sociale, centrale nella società, insostituibile per la dignità della persona.

Il tema è allora quello di come ridistribuire all’insieme della società i benefici della rivoluzione tecnologico-informatica, impedendo così che, andando a vantaggio di pochi, si accentuino i privilegi e amplino le disuguaglianze. Viene dunque a porsi ancora una volta nella storia la questione di una riduzione degli orari di lavoro e di una occupazione nuova, che può trovare il suo spazio nei servizi alla persona, nel sostegno ai suoi itinerari di vita, in un welfare universale indirizzato dalle istituzioni democratiche pubbliche, ma gestito dal cosiddetto privato sociale. Nessuno di questi obiettivi può essere compiutamente raggiunto nella dimensione nazionale.

Nella nuova epoca i valori che ci stanno a cuore resteranno parole e non si invereranno se non costruiremo istituzioni sovranazionali: da un lato fare delle Nazioni Unite un primo embrione di governo mondiale, almeno per le sfide del clima, il rispetto dei fondamentali diritti umani, la tutela delle minoranze etniche e religiose, il compito di prevenire e spegnere i conflitti armati. Non siamo nel regno dell’utopia, bensì in quello assai concreto di un ritardo storico; dall’altro, qui da noi, in Europa, realizzare una vera democrazia federale. L’alternativa non è “se” l’Unione Europea o i nazionalismi sovranisti, reazionari perché oltretutto antistorici. L’alternativa è “quale” Unione Europea, come farne una democrazia federale, responsabile della politica estera, di difesa, di sicurezza, delle scelte macroeconomiche e del riequilibrio solidale tra i suoi cittadini e territori. Anche questo è un valore, che deve diventare un programma, appassionare le giovani generazioni e i popoli. Senza una democrazia globale, non si affermeranno i diritti su scala planetaria. Senza una democrazia federale europea, si impoveriranno, con il rischio di ridursi a sola forma, le nostre democrazie nazionali. Già si vede: nella partecipazione al voto anche da noi; in processi involutivi in atto in nazioni come l’Ungheria.

Sono convinto che i cattolici possano dare un contributo insostituibile al formarsi di un’etica che orienti la convivenza nella nuova epoca. Perché ne sono persuaso? Perché alle nostre spalle c’è il Concilio Vaticano II e nel nostro presente un Papa di nome Francesco. In questo inizio degli anni duemila il suo insegnamento è una sorta di stella polare per tentare di fissare una rotta di navigazione per l’umanità. L’enciclica “Laudato sì” ne è un segno e non certo l’unico. Chi dentro la Chiesa si oppone a Papa Francesco dice che il suo insegnamento pastorale e sociale piace ai “lontani”, che però restano tali, e sconcerta i “vicini”. È vero che parla e convince anche i “lontani”: se davvero restano tali, e in parte è così, il problema non è il messaggio del Papa, ma come sa ovunque essere presente la Chiesa. Forse è il caso di chiedersi se parrocchie e diocesi vivano pienamente e coerentemente non solo la lezione di Francesco, ma l’impegno per dar vita in modo non prevalentemente formale alle acquisizioni del Concilio. Forse occorre interrogarsi se i “lontani” non restino tali per le forme con le quali generalmente continua a vivere l’esperienza di fede, per un ritualismo che a volte nasconde la radicalità e l’amore contenuti nel messaggio di Gesù. Pone qualche domanda il fatto che nei giorni festivi si vada a Messa e negli altri ci si faccia trascinare nella competitività più sfrenata ai danni del prossimo, dal modello del successo ad ogni costo e con qualunque mezzo, dal dominio assoluto della legge del denaro; che si sia sopraffatti dal disprezzo per i diversi, dal fastidio e dall’avversione pura e semplice verso gli immigrati, tanto da cambiare addirittura parrocchia, se si vive a Vicofaro o se il prete che impartisce i sacramenti è di colore. Non si possono solo contare le persone che frequentano le chiese: altrettanto, anzi più importante ancora è la coerenza nella vita quotidiana. Altrimenti i valori non si affermano nell’esperienza di ogni giorno. Per non tornare ai limiti e ai condizionamenti posti all’autonomia dei laici cattolici in politica al tempo dei cosiddetti valori non negoziabili, fase difficile già richiamata da Ivano Paci. Papa Francesco rappresenta un’opportunità per la Chiesa e per il mondo, ma da solo non può farcela. Resterebbe un profeta, grande, affascinante ma isolato. Una testimonianza poi non seguita.

Nella vita della Chiesa, nell’esperienza delle parrocchie, a più di cinquant’anni dal Concilio, quale è ancora oggi il ruolo e lo spazio dei laici? Quale quello delle donne? Perché se non ragioniamo su questo come potranno camminare nella società i valori di cui la Chiesa e il mondo cattolico sono portatori? Senza queste basi il dialogo interreligioso non potrebbe progressivamente coinvolgere i popoli, ma soltanto i vertici, chi nelle diverse confessioni religiose ha la responsabilità di dirigere, di esserne alla guida.

Un nuovo umanesimo non segnerà il nostro futuro senza che le fedi religiose e le culture scendano in campo da protagoniste. I partiti e gli Stati non assumeranno quei valori, se essi non si faranno strada emergendo nella società, divenendone un riferimento forte, chiaro. Noi sappiamo che l’umanità del terzo millennio ha bisogno di questo approdo e dunque se non altro possiamo vedere l’orizzonte di un nostro impegno e del nostro dovere.