L’unità realizzatasi nella Direzione nazionale del Pd è importante: lo è sempre, figuriamoci dopo una sconfitta elettorale così pesante. Tuttavia l’unità è una condizione necessaria, non sufficiente.
Vedo di fronte a noi tre possibili rischi e non possiamo permetterceli.
Il primo: ritenere che la causa della sconfitta sia stata la persona di Renzi, la caduta del feeling con i cittadini e dunque, dimessosi il segretario, la barca sarebbe destinata ad andare. Può darsi che il calo di simpatia del leader abbia inciso, ma dubito che l’esito senza di lui sarebbe stato entusiasmante.
No, la questione è l’analisi della società, le proposte avanzate, la coerenza con i valori che si richiamano.
Ciò che ci ha fatto perdere le elezioni sono la politica e il modello di partito che si è affermato, quest’ultimo ben prima dell’avvento di Renzi.
Sono in primo luogo le scelte politiche che vanno rimesse in discussione, sapendo che erano state fatte proprie dal 70% di quanti hanno votato alle primarie e che la grande maggioranza degli attuali gruppi dirigenti le aveva condivise e sostenute. È da qui che si deve ripartire, dalla crisi della sinistra europea, in Germania come in Francia, in Spagna come in Italia.
I temi sono le domande dei cittadini, che spesso non sappiamo neppure ascoltare: il bisogno di sicurezza che si traduce in diritto ad una occupazione non precaria, in diritti e doveri nel lavoro e nella società, riforma del welfare, sviluppo ecologico ma anche sicurezza dalla criminalità, richiesta di legalità e trasparenza, governo delle migrazioni. Partendo da queste domande occorre ridefinire un progetto di società, alternativo a quello delle destre e dei populismi, che faccia vivere in concreto il legame che esiste tra possibilità di governare la globalizzazione, per darle finalità di giustizia, uguaglianza, superamento delle povertà, e rafforzamento della democrazia, con al centro l’indispensabile realizzazione di una democrazia federale europea.
Il secondo rischio: è stato giusto convocare assemblee in tutti i circoli. È una necessità discutere con gli iscritti, coinvolgerli, restituire valore ad una militanza in questi anni purtroppo svalutata. Tuttavia, dopo questa prima fase, nei circoli bisogna tornare sulla base di un documento nel quale la direzione assuma una sua valutazione delle cause della sconfitta, una indicazione di punti cardine per rilanciare il Pd, una proposta di scelte nuove.
È vero, poi ci sarà il congresso. Avere però subito un quadro di riferimento comune, almeno su aspetti di fondo, sul quale gli iscritti possano confrontarsi, portare il loro contributo, determinare modifiche, è essenziale.
Si guardi all’esperienza della socialdemocrazia tedesca: senza un ruolo decisionale di quanti aderiscono ad un partito, non ci saranno né rigenerazioni né rilancio.
Il modello di partito va cambiato: dallo svolgimento dei congressi alla elezione degli organismi dirigenti, dal rigore nei comportamenti – impedendo inquinamenti, familismo o clientelismi – alla modalità delle primarie. A mio giudizio queste devono essere riservate esclusivamente alla scelta da parte dei cittadini del centrosinistra dei candidati a sindaco, presidente di Regione, presidente del Consiglio.
Non abbiamo ancora fondazioni o centri culturali di rilievo nazionale né una rivista. Valori, programmi, politica, modello di partito sono inseparabili: facce di una stessa medaglia.
Terzo rischio: quello di chiuderci in noi stessi. Dobbiamo fare di questa fase di confronto un’occasione per unire la sinistra delusa e dispersa. Il Pd deve tornare ad essere la Sinistra plurale che avevamo sognato anche per l’Italia, il perno di una rinnovata alleanza di centrosinistra. L’insuccesso anche di Liberi e Uguali, l’esistenza di un associazionismo e civismo riformista di sinistra sparsi nel territorio, anche se oggi delusi e spesso senza collegamenti, rendono possibile porsi questo obiettivo. Va fatto. È certo importante assolvere al nostro compito nelle assemblee elettive: all’opposizione di governi della destra a trazione lepenista o dei Cinque Stelle; impegnati, come è nostro dovere, nella definizione degli assetti del Parlamento, perché le istituzioni e il loro funzionamento non riguardano solo chi vince le elezioni, ma ogni forza politica. Le istituzioni appartengono ai cittadini, non ai partiti. È legittimo e normale che chi alle elezioni ha avuto più consensi esprima i presidenti delle Camere: se si vuole introdurre il clima giusto, non si tratta però di un prendere o lasciare. Si dovrebbe poter discutere e poi convergere all’interno di una rosa di candidature e si dovrebbe riconoscere, senza pretesa di contropartite, lo spazio dovuto negli uffici di presidenza, a partire dai vicepresidenti di Camera e Senato, ai gruppi politici che come il Pd rappresentano in ogni caso un quinto degli elettori.
Occorre muoversi con coerenza e responsabilità nel Parlamento, saper mantenere il filo del necessario dialogo con le nostre organizzazioni sul territorio, evitare di far apparire il Pd, che ha perso le elezioni, come il primo responsabile della formazione o meno dei governi.
È la destra, sono i Cinque Stelle chiamati in primo luogo dal voto a mostrare la loro capacità o il loro fallimento nel governare.
Contribuire noi ad una confusione di ruoli, inesistente nelle altre democrazie, a me pare espressione di una vecchia cultura politica che non si riesce mai ad archiviare; una tendenza a guardare non la strada e l’orizzonte, ma i propri piedi, assunti per ciò stesso a interesse generale.
Si può naturalmente guardare il dito anziché la luna: a volte può capitare. La conseguenza temo che sarebbe tra qualche tempo prendere atto che il nostro “terzo polo” non ha più neanche il 20%.
Guardando il dito si cade dritti nel precipizio. Chi si riconosce nella sinistra in Italia e in Europa merita altro, perché della sinistra c’è ancora bisogno. Si tratta di riaccendere fiducia e speranza in un progetto di società, non illuderci di appassionare i cittadini esibendo maestria nel muoverci tra corridoi e trappole.