Daniele-PuglieseHo tenuto sul comodino a lungo, per troppo tempo mi viene da dire, tra i non pochi libri che, per piacere o monito interiore, mi riprometto di leggere, Vicini e lontani (Donzelli, pp. 188, € 19), l’ultima fatica di Vannino Chiti, (www.vanninochiti.com), senatore della Repubblica italiana, a cui mi lega un antico rapporto fatto di “stima” e “affetto”, come lui stesso ha avuto occasione di dire nel corso della presentazione del mio Sempre più verso Occidente in una bella libreria di Pistoia, lo Spazio di via dell’Ospizio.

Stima e affetto che da parte mia permangono immutati, semmai anzi rafforzati, non solo per la sensibilità che, fattivamente impegnandosi perché mi fosse offerta un’opportunità con cui vivere, ha avuto dopo che un blasonato iscritto al suo stesso partito, dall’andamento instabile del proprio umore, mi ha cinicamente messo sul lastrico; ma anche perché in questi anni è stato coraggiosamente uno dei pochi politici presenti nelle più autorevoli assemblee elettive, capaci di difendere la Costituzione e i meccanismi che ad essa consentono di tener viva la democrazia in Italia, esponendosi per ciò, inevitabilmente, al discredito nell’accolita di yesman e individui votati alla politica solo per interesse personale, i quali costituiscono in maniera trasversale la maggioranza di chi siede in Parlamento e nei Consigli regionali.

Ho voluto leggere il libro di Chiti non solo per la stima e l’affetto e perché me ne ha fatto omaggio, ma anche perché ero certo che dentro vi avrei trovato qualcosa di studiato, meditato, moralmente doveroso di essere espresso, a differenza – lo scrivo per esperienza personale – di quanto i politici di bassa levatura accrocchiano in vista delle elezioni – facendoseli non solo scrivere, ma addirittura pensare da altri – pur di avere un po’ più di pubblicità di quella garantita dagli uffici stampa e dallo smodato uso di Facebook per spararla grossa su qualunque moscerino entri dalla finestra.

Non mi sbagliavo. Molto tempo fa ho avuto modo di aiutare Chiti nella preparazione di un paio di suoi libri e in qualche altra più piccola pubblicazione, anche in quel caso essendogli riconoscente dell’opportunità datami di non restare al palo nel momento di chiusura de l’Unità.

In quelle occasioni ho potuto apprezzare non solo il fatto che, malgrado i mille impegni dell’attività istituzionale, avesse, supportate da adeguate letture per le quali sono richiesti impegno e fatica, idee molto chiare su cosa comunicare; ma maggiormente che a suggerimenti, obiezioni, addirittura critiche, prestasse orecchio, valutando di volta in volta con coscienza se accoglierli o meno, e sempre comunque, avvalendosi del garbo, della gentilezza e non piegandosi al rancore.

Anche in Vicini e lontani ho trovato tanto le cognizioni di causa – l’excursus storico delle relazioni tra laici e cattolici ed in particolare il precipuo ruolo in esse dei laici propriamente detti, di quanti, a differenza dei comunisti italiani, marcavano la propria distanza dalla Chiesa e dalla fede – quanto la passione ed il convincimento, o la determinazione, che dovrebbero certamente animare chi ha scelto di impegnarsi “con” e/o “nella” politica; altrettanto certamente chi si accinge a scrivere un libro, qualunque ne sia il contenuto; ma, più in generale, chiunque stia vivendo la propria transitoria presenza nel mondo, il rapido passaggio che, secondo Dante, non era fatto «per viver come bruti», un monito che riguarda tutti, eccezion fatta per chi, per sortilegio della natura, non dispone delle proprie facoltà mentali.

Vannino, lo chiamo per nome malgrado il rispetto alla carica istituzionale che ricopre, ha particolarmente a cuore, da tempo immemore, la questione del ruolo che la credenza trascendentale, in particolare la fede di chi dovrebbe avere a modello Gesù, svolge nella polis, laddove si decide l’organizzazione della vita dei cittadini, stabilendo una ragnatela di norme e comportamenti che regolino la convivenza civile.

La quale – dai tempi almeno della laicissima Rivoluzione francese o dell’Habeas corpus o della stesura del Leviatano di Hobbes, a cui dobbiamo i basamenti della politica come la si intende da qualche secolo – si ispira alla non interferenza del credo (e del clero) nelle questioni temporali, lasciando ad esso la giurisdizione in quelle spirituali, trovando tuttavia forme e modi per impedire che venga calpestato quanto attiene allo spirito o, direbbero i laici, alla coscienza profonda.

Chiti pone interrogativi pesanti al riguardo, in alcuni casi fidandosi forse troppo delle solite definizioni acquisite nel frasario della comune militanza, ma certamente di importanza “cardinale” anche nel miserabondo panorama dell’attuale politica italiana.

Io credo per esempio che, da alcuni anni almeno, i dettati canonici, o per tali spacciati, della propria esperienza interiore affidata alla religione cattolica, in relazione alle scelte che si fanno mettendo una scheda nell’urna, si siano assai attenuati, se non estinti, eccezion fatta per alcuni temi “intoccabili”.

Parimenti ritengo si sia ridotta al lumicino la sincera devozione a quanto è nelle nostre mani che rivela quale fosse la parola di Gesù: i Vangeli e l’ebraica Bibbia, non l’interpretazione posticcia e spesso utilitaristica su cui la Chiesa a lungo ha costruito la propria grandezza e fortuna.

In modo analogo credo sia una menzogna di proporzioni cosmiche quella che – per bieche ragioni di opportunismo immediato, incurante di quanto dannoso sia lo spettro della paura per la convivenza e la sicurezze degli individui – una sparuta ma ben rifornita banda di malviventi votata alla diffusione del terrore e, sull’altro fronte, i fautori di una conflittualità tutta volta a preservare i privilegi derivanti da quanto residua dal colonialismo occidentale, diffondono tentando con ogni mezzo di farci credere che sia attinente alla sfera religiosa e scomodando un testo sacro, il Corano, che in massima parte ha poco di sanguinario e repressivo nei confronti di chi ha altri credo.

Per ciò in qualche punto del libro mi trovo a disagio dinanzi alle argomentazioni di Vannino che sembrano dare basilare peso proprio al “creduto” su “l’agito”, a quelle che Marx avrebbe definito le “sovrastrutture” sulle “strutture”. Ma del resto questo è il tema del libro, ed è con esso che bisogna misurarsi, peraltro apprezzandone l’autorevolezza e l’onestà intellettuale, che rispecchia l’onestà di chi l’ha scritto.

Occupandosi delle vicende del suo partito, al quale io fermamente e a malincuore non ho aderito, nota che gli andrebbe ascritto il merito di aver tentato di unire in un unico soggetto le istanze migliori e più genuine delle tradizioni che lo hanno fatto scaturire, cioè proprio la volontà dichiarata di rifarsi ai valori dei cattolici, dei comunisti e dei laici, per tentarne una proficua sintesi.

E tuttavia nota (p. 144) che l’obiettivo «di una piena ricomposizione non è raggiunto», specificando immediatamente dopo che «ci sono i pesi, rappresentati dal consenso elettorale, ma anche i valori, l’immagine, i messaggi». Ed io aggiungerei la «sostanza», quel che si è, la ragione per la quale si sta assieme, e la corrispondenza fra quanto si dice di voler fare e quello che effettivamente si compie.

Tutta roba che, come credo Vannino meglio di me sappia, o è inesistente o è confinata in angusti spazi il più delle volte addirittura indicibili fra chi milita nelle sue fila, pena scatenare un immediato senso di fastidio, se non la faccia interrogativa di chi non comprende di cosa si stia parlando.

E qui si apre una questione che in una aggiornata edizione del proprio libro Vannino dovrebbe a mio giudizio meglio indagare: il fisiologico ricambio generazionale. Non alludo all’occupazione manu militari dei vertici del suo partito osannata con l’orribile termine preso a prestito dalla Fiat e da un foraggiato sostegno pubblico all’impresa privata mediante incentivi che è “rottamazione”: parola con la quale poi si è mascherato anche il “furbetto” escamotage di far credere che si sono creati nuovi posti di lavoro per i giovani scaricando sul più bello e con largo margine di anticipo, e contravvenendo ai patti sottoscritti al momento di versare i contributi previdenziali, chi ha raggiunto una certa età, ha magari rotto un po’ i coglioni, e si preferisce metterlo sul groppone della spesa pubblica anziché su quello dei bilanci aziendali.

Mi riferisco, invece, senza aver sotto mano statistiche confortanti il mio ragionamento, a quanti, andando quest’anno alle urne, sono nati l’anno della caduta del muro di Berlino – o anche poco prima, addirittura quando si andava in piazza, senza riuscirci, per tentar di far tornare la democrazia in Cile, o, riuscendoci, in Grecia – e a maggior ragione a chi oggi, raggiunta la maggiore età, ha acquisito il diritto-dovere di voto, ed è perciò nato nel 1998, l’anno in cui Giovanni Paolo II visita Cuba ed emette l’enciclica Fides et ratio, sul rapporto tra filosofia e fede; un uomo muore dopo essersi dato fuoco in Piazza San Pietro per protestare contro l’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli omosessuali; una valanga di fango seppellisce alcune località del salernitano uccidendo, solo a Sarno, 137 persone; Pantani vince Giro d’Italia e Tour de France; terroristi legati a Bin Laden attaccano le ambasciate americane di Dar es Salaam in Tanzania e Nairobi in Kenya, provocando 224 morti e oltre 4.500 feriti; due studenti di Stanford fondano Google; i socialdemocratici della Spd vincono le elezioni in Germania e nominano Schröder cancelliere del primo governo rosso-verde della storia tedesca, dopo sedici anni di predominio cristianodemocratico; il dittatore cileno Augusto Pinochet, che invano avevamo tentato di cacciare, viene arrestato da Scotland Yard; Loris Capirossi vince il mondiale classe 250 di motociclismo; il leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) Abdullah Öcalan, ricercato dalla polizia turca, trova scampo per un solo mese in Italia, prima di essere catturato dai servizi segreti del suo paese in Kenya; e, infine, vengono fissati i tassi irrevocabili di conversione con l’euro di 11 valute europee.

In altre parole mi riferisco a quanti, non avendo sperimentato di persona per ragioni anagrafiche la militanza nei partiti storici di ispirazione cattolica, comunista o laica, hanno probabilmente oggi, se ce l’hanno, un approccio alla politica meno compiutamente valoriale di quanto non fosse in passato, ed un radicalmente diverso senso di appartenenza a un gruppo nel quale identificarsi, nonché, come si dice, non so se a proposito e per coazione a ripetere luoghi comuni, peraltro non avendo io figli, una sostanziale diffidenza verso la politica in generale giudicata o corrotta o inutile.

Mi chiedo cioè se a queste generazioni i genitori abbiano trasmesso valori riferibili ai Vangeli, al Capitale di Marx o, il primo che mi viene in mente, al Gobetti della Rivoluzione liberale e non, invece, alla smania della maglia griffata, all’impellenza di una domenica trascorsa in un centro commerciale, alle virtù della marjuana e della Ceres, alle mirabili gesta di un Zinédine Zidane, alla poca importanza di cedere il posto sull’autobus ad una persona più anziana, al vantabile merito di aver messo l’auto in sosta in terza fila o, per finire, al modo migliore per fregare gli altri come unico rimedio a non farsi fottere.

Più esplicitamente mi chiedo se gli unici valori trasmessi negli ultimi tre-quattro decenni, direi a partire dagli anni Ottanta quando la Thatcher e Reagan fecero assopigliatutto – ne fa cenno lo stesso Chiti a p. 156 –, non siano quelli, non del laicissimo liberalismo, ma dell’agnostico (per indifferenza, non per scelta) liberismo, che rispetto al primo è tutta un’altra faccenda e non affonda nemmeno nei medesimi padri spirituali.

Ed ancor più esplicitamente mi chiedo se l’eventuale correttezza di questa mia sintetica analisi non poggi su una delle più bestiali aberrazioni concettuali e linguistiche che siano state partorite, quella dell’esistenza delle “leggi di mercato”, incondizionabili, meritorie e inevitabili. Leggi che è vero esistono nei termini formulati dagli economisti classici – sostanzialmente l’incontro tra domanda e offerta –ma non hanno carattere vincolante come nel caso delle leggi di natura o di quelle, convenzionali ma concordemente accettate, presenti nei codici civili e penali.

A questo spettrale simulacro, rispetto al quale è stato posto una sorta di tabù insormontabile, non hanno opposto la benché minima resistenza né reduci del Pri, del Pli, della Dc – per i quali sarebbero dovute valere quelle storie sui cammelli che passano nelle crune degli aghi e sui mercanti cacciati dal sagrato del Tempio –, del Psi e, purtroppo, tanto meno del Pci fondato da Antonio Gramsci e portato all’apogeo da Enrico Berlinguer. Insomma da nessuno che fosse imbevuto dai valori di ideologie, laiche o religiose, che hanno sì prodotto orrori, ma anche meritano un po’ di riconoscenza.

Non sto affermando che si dovrebbe tornare all’idea della sottrazione per mano proletaria dei mezzi di produzione a chi ha deciso coraggiosamente di investire mettendoci del proprio e rischiando; né tanto meno che si debba riaffermare il principio della proprietà privata come reato, cosa che si è detto in gioventù anche da chi adesso tiene ben strette le proprie accresciute fortune; ma certamente sto affermando che sarebbe un diritto ed un dovere della politica quello di regolamentare, ponendo anche limiti, restrizioni, eventuali ammende, a una crescita –sproporzionata, inspiegabile, inutile – delle ricchezze, ai meccanismi di redistribuzione del reddito, innanzitutto affermando che è obbligatorio – lo ripeto: obbligatorio – che chiunque benefici di un reddito, per ottenere il quale altrettanto obbligatorio è disporre di un lavoro.

Queste sì potrebbero essere “leggi”, che non intaccherebbero, nei suoi presupposti, il funzionamento dell’economia, solo lo renderebbero più a misura d’uomo, più consono a quell’attenzione alla persona di cui Chiti, presumo rifacendosi a Mounier, dice i cattolici siano i depositari maggiori o più attenti.

Nel suo libro Chiti al riguardo suggerisce – in realtà riferendosi all’estensione della democrazia oltre alle Istituzioni, acciocché non vada definitivamente perduta – quanto è stato esperito da oltre mezzo secolo nelle aziende tedesche con la partecipazione dei lavoratori a una parte almeno delle scelte imprenditoriali, così come fece Olivetti a Ivrea e così come mi risulta si faccia in poche elitarie ditte italiane che quell’esperienza l’hanno capita e accolta, assai più di quanto non abbiano fatto le imprese cooperative che, nate dallo spirito di solidarietà e cooperazione, spesso oggi sono un passo avanti in quanto a sfruttamento dell’uomo.

Cita quell’esempio – ripeto – riferendosi al tema della democrazia, ma non credo ignorando che questa è davvero tale quando tutti, e dico tutti, hanno onestamente di che mangiare basandosi sul proprio. E del resto mi domando che diavolo di democrazia sia quella dove il 99% della popolazione – non il 51, il 99% – non possa rendere più equo il rimanente 1%, il quale detiene da solo la stessa ricchezza che tutti gli altri si spartiscono, chi facendo lo spazzino, chi il chirurgo, chi il disoccupato, fra i quali, è noto, esistono dismisure abissali nei livelli di reddito.

E non vedo perché un partito che si definisca democratico, ed ancor più uno che si voglia richiamare ai valori della propria tradizione egualitaria, non debba osare di avere questo dell’equità – concetto attinente alla legge ed alla giustizia – come suo primo obiettivo, che corrisponderebbe ai “minimi” di una compiuta democrazia da un lato, e assunzione dei valori cristiani di rispetto della persona dall’altro.

Non dunque un impegno programmatico per l’aumento dell’occupazione, ma una norma tassativa che – agendo su profitti, rendite, salari, plusvalenze, oneri – pratichi quanto sta scritto nel primo articolo della Costituzione italiana.

C’è poi un punto sul quale dissento da Chiti, quello dove afferma (p. 153) che «assume un nuovo significato e più ampie prospettive quella proposta della sussidiarietà elaborata dal pensiero cattolico ed entrata a far parte dei trattati europei e della Costituzione italiana. Si tratta, come è noto, di un’impostazione che chiede alle istituzioni della democrazia di lasciare ai cittadini e alle loro associazioni la gestione di attività economiche e di servizi di welfare, nelle quali sia già ora possibile far prevalere, come criterio guida, non un riferimento al profitto, ma a principi solidaristici e di reciproca gratuita, dilatando, con un sostegno anche istituzionale, gli spazi di questa presenza e responsabilità diretta, per così dire di carattere civico».

Dissento non dall’intento, onesto e inequivocabile, di favorire la mutua assistenza e le positive esperienze del volontariato, ma perché molte delle organizzazioni che operano in questo campo, a partire purtroppo proprio da quelle di ispirazione cattolica, operando, per esempio, nel campo della salute e dell’assistenza – dove è stata accolta (anche lì!) la concorrenza, il libero scambio, le leggi del mercato, il diritto dei privati, il ruolo della finanza – fanno spesso San Francesco pensando di essere Marcinkus, o se si preferisce fanno Marcinkus, dando a credere d’essere San Francesco.

Trovo aberrante, come mi è capitato di sapere, che un samaritano sceso da un’autoambulanza rianimi forsennatamente fino all’inverosimile e contrariando la scelta dei familiare di lasciare in pace o forse al buon dio il pover’uomo in arresto cardiaco, vantandosi poi del fatto di aver portato in ospedale un individuo in più, perché così ha incrementato il premio dovuto alla propria congrega e, in quota parte, a se medesimo.

Così come trovo aberrante, ed altrettanto mi è capitato di udire, che un museo pubblico funzionante e in crescita costante di visitatori, si avvalga preferibilmente dei giovani impegnati nel servizio civile, per non ricorrere alle assunzioni dei cococo e spartire anche in salario il valore di quei biglietti strappati in più.

Ma il merito del libro di Chiti sta proprio qui, che ha delle idee, con le quali si può anche non essere d’accordo, le esplicita, ha il coraggio di toccar temi, insiste su concetti che forse saranno desueti ma al posto dei quali dobbiamo fare la fatica, leggendo e studiando come ha fatto Chiti e come dovrebbe fare chiunque ci rappresenti in un’aula che è nostra.

E se quindi non necessariamente ci dà soluzioni, ci indica dove andare a cercarle, o, almeno, ci sprona a farlo.

C’è un’ultima questione sulla quale vorrei fare una breve postilla. Non vorrei che al lettore e a Chiti sembrasse che io sottovaluti il peso e l’influenza della fede su quello che Marx chiamava «lo stato presente delle cose» e tanto meno che io sminuisca l’opportunità di occuparsene.

Anzi: non a caso ho scelto la parola “fede” che può valere tanto per i cattolici quanto per i mussulmani, tanto per gli ebrei quanto per i buddisti, e che – come ho scritto molti anni orsono in un saggio intitolato La politica ritrovata. Proposte per evitare la sconfitta totale a partire da un libro di Marco Revelli, con la cui pubblicazione a puntate, ho pressoché iniziato questo mio blog – è una di quelle “parole chiave” alle quali anche un laico, di più un agnostico ateo come me, dovrebbe prestare attenzione, senza per ciò impantanarsi nella disquisizione di chi stia sopra le nostre teste o ad attenderci il giorno che gli atomi e l’energia di cui è composto il nostro corpo prenderanno un’altra forma.

Per chi fosse interessato a questo mio invito ad una “fede” laica, consiglio quanto meno la lettura del capitolo XIX e del capitolo XX dove, anche grazie alle acute riflessioni di Alberto Asor Rosa, mi addentro in una materia che poco mi appartiene e che Vannino Chiti, invece, ha anche questa volta mirabilmente trattato.