Ho già avuto occasione di dire che la riforma del bicameralismo paritario che più mi avrebbe convinto sarebbe stata quella che introduceva realmente il Bundesrat, oppure quella che, conservando l’elezione diretta da parte dei cittadini, dava vita ad un Senato delle garanzie. Nella prima fase del confronto ho anche presentato, insieme ad altri, un progetto che sviluppava quest’ultima impostazione. Poi, in 15 senatori del Pd non abbiamo votato il disegno di legge di riforma costituzionale.
È evidente che, se questo fosse stato l’approdo finale, avrei per coerenza sostenuto il No al referendum. Al Senato invece, nella seconda lettura del provvedimento, si determinò un’intesa che unì Pd e maggioranza di governo: la rottura con Forza Italia è dipesa da altre scelte politiche di quel partito, che fanno apparire come strumentali le sue critiche alla riforma.
L’accordo si fonda su quattro punti: modalità di elezione del presidente della Repubblica, che oggettivamente escludono – ben più di oggi e del passato – la possibilità per una maggioranza che vinca le elezioni alla Camera di imporre il suo candidato; designazione dei 5 giudici costituzionali da parte del Parlamento, assegnandone 3 alla Camera e 2 al nuovo Senato, così da assicurare la pluralità della loro appartenenza culturale; determinazione da parte dei cittadini, con il voto, dei consiglieri regionali che diventeranno senatori, al momento dell’elezione nelle Regioni. I Consigli si limiteranno alla ratifica delle scelte; ampliamento della partecipazione dei cittadini alla vita della Repubblica attraverso l’introduzione in Costituzione dei referendum propositivi e di indirizzo e norme che rendano più facilmente raggiungibile il quorum per quello abrogativo.
I primi 2 dei 4 punti sono acquisiti: per l’elezione dei consiglieri-senatori da parte dei cittadini serve una legge elettorale che attui la previsione della nuova Costituzione. È il caso di ribadire anche al ministro Franceschini che pacta sunt servanda, come ha detto Matteo Renzi all’ultima assemblea dei gruppi del Pd di Camera e Senato: la legge va approvata entro questa legislatura. È essenziale, per la stessa campagna referendaria, non solo mantenere questo impegno, ma anche la scelta di avanzare prima del referendum, come Pd, una nostra proposta. Al Senato esiste un disegno di legge sottoscritto da più di 20 senatori Pd: lo assumiamo come progetto del nostro partito così com’è, oppure con quali modifiche? Al tempo stesso dobbiamo prendere l’impegno a varare, prima delle elezioni politiche, le leggi attuative per i referendum.
Si possono legittimamente ritenere queste modifiche come insufficienti: negarle o ignorare che esse rappresentino un passo avanti, significa chiudersi in rifiuti pregiudiziali e in dogmatismi astratti. Definire la riforma costituzionale un colpo di Stato contro la democrazia contribuisce a rendere il referendum uno scontro tra fazioni, non meno delle suggestioni a farne un plebiscito.
Non comprendo come alcuni parlamentari, con i quali pure ho condiviso esperienze e battaglie, dopo aver votato la riforma in Parlamento – alcuni anche nella primitiva stesura o addirittura alla Camera senza la partecipazione delle opposizioni – possano oggi avanzare propositi di sostenere il No al referendum. Il venir meno della coerenza non è una virtù e fa perdere credibilità.
È giusto invece, a mio giudizio, un confronto di merito con quanti, senza gridare alla morte della democrazia, non condividono la riforma. Ammettiamo che il procedimento legislativo si dimostri nell’esperienza concreta complesso e non pienamente efficace: è più facile correggerlo a riforma approvata, oppure smantellare tutto e ancora una volta – ammesso che sia possibile – ripartire da zero?
Così per il Titolo V: siamo certi che una sua modifica, nel segno di una più forte caratterizzazione regionalista, non richieda una radicale riorganizzazione delle Regioni, del loro stesso numero? Io me ne sono ormai convinto perché anche per le Regioni vale il detto che non si può mettere il vino nuovo – cioè competenze e funzioni – in otri vecchi.
Infine: neanche a me l’Italicum piace e per questo motivo al Senato non l’ho votato. Soprattutto non mi convince la scelta dei deputati da parte dei cittadini, con un doppio regime tra capilista bloccati ed il resto dei candidati affidato alle preferenze. Una modifica che generalizzasse i collegi uninominali – meglio se a doppio turno, ma anche a turno unico, se necessario per un’intesa – la sosterrei con convinzione. Corrisponde al profondo sentimento di chi guarda al Pd ed è la più coerente con la logica delle primarie.
L’Italicum è comunque sottoposto ora alla valutazione della Corte Costituzionale: possiamo attendere il suo pronunciamento, la decisione su eventuali criticità.
In ogni caso penso sarebbe un grave errore affidare domani, a Grillo e Salvini, la riforma della Costituzione. La vittoria del No temo avrebbe conseguenze più gravi di quella di accrescere le difficoltà del governo o di provocarne la crisi: farebbe trionfare populismi reazionari, questi sì privi di controllo e pericolosi per la democrazia.
Non si tratta di invenzioni per patrocinare il Sì: basta guardare all’Europa o agli Usa per rendersene conto. In politica la miopia provoca disastri e rovine.