Due riflessioni sugli scenari del referendum del 17 aprile, ormai noto come quello sulle Trivelle.
La prima riguarda il presidente del Consiglio. Su questo aspetto sono in dissenso con lui, e non perché sostengo il sì. Non sarebbe così forte la divergenza se Renzi sostenesse di andare a votare per il NO.
Per me è inammissibile che un presidente del Consiglio si auguri il fallimento del referendum. Ho già detto che noi DS sbagliammo nel 2003 a sostenere il non voto al referendum di Rifondazione Comunista sull’estensione dell’art. 18 alle aziende con meno di 15 addetti. Dovevamo avere fiducia nelle nostre ragioni.
Sono però passati 13 anni. È peggiorato, non solo in Italia ma in diversi paesi europei, il rapporto di fiducia tra cittadini, politica e istituzioni.
Ci dice niente che a elezioni regionali recenti – in Emilia Romagna e Calabria ad esempio – la percentuale dei votanti sia stata al di sotto del 50%, in varie altre appena al di sopra?
Saremo credibili tra qualche mese quando con disinvoltura parleremo della bellezza e del dovere di partecipare, chiedendo ai cittadini di andare a votare?
Non è poi la stessa cosa se a chiedere – sbagliando – di far fallire un referendum è una forza politica di opposizione, oppure un partito di governo, addirittura il premier: in un referendum ci si esprime a favore o contro una legge. Chiedere che fallisca equivale, se ne sia o meno consapevoli, a pretendere il non giudizio, la mancata valutazione da parte di chi, in democrazia, è – dovrebbe essere – il vero sovrano: i cittadini. Questo aspetto si proietta anche sul referendum prossimo venturo, quello sulla Costituzione. Dopo il compromesso raggiunto al Senato, abbiamo indicato, come necessità per un voto positivo al referendum, l’impegno della maggioranza di governo per approvare, subito dopo, la legge elettorale per l’elezione dei consiglieri regionali-senatori. Mi pare indispensabile ora fare un patto per varare in questa legislatura le leggi attuative dei referendum – anche quello propositivo -, la cui previsione innova la nostra Carta fondamentale, aprendola ancor più alla partecipazione.
Infine, la richiesta di un fallimento del referendum, annebbia l’immagine del Pd. Doveva essere una sinistra moderna, plurale, europea. Doveva fondarsi su una discontinuità politica, il cui asse principale è rappresentato dalla partecipazione. I cittadini che guardano a noi devono esprimersi solo sulle persone, attraverso le primarie – che non a caso stanno subendo un processo di logoramento – oppure anche sulle politiche? Le politiche, i programmi, in caso contrario sarebbero riserva di pochi eletti, poi benevolmente affidati al plauso degli yes men.
Non funziona così. Almeno a sinistra ci vogliono le decisioni, ma se prima non si hanno sedi reali di confronto, non ci si rafforza. Ci si dissolve, prima o dopo. Ognuno di noi – mi capita in questo periodo di dirlo spesso – è chiamato, di fronte ad ogni scelta, a trovare un equilibrio tra etica dei valori ed etica della responsabilità. Da soli i valori possono portarci alla semplice testimonianza, necessaria ma non sufficiente; la responsabilità, scissa dalla coerenza con i valori, produce, se va bene, pragmatismo, spesso anche spregiudicatezza e cinismo.
Ognuno è chiamato a trovare, nella propria riflessione e negli interrogativi che si pongono alla sua coscienza, ogni volta un equilibrio tra valori e responsabilità: la funzione di un partito è consentire di arrivare ad un equilibrio, coinvolgendo una comunità ampia di persone, e di farlo attraverso percorsi democratici. Di questo, ancora oggi, c’è bisogno a sinistra.
La seconda riflessione riguarda le Regioni: il referendum è stato promosso da 9 Consigli Regionali, 7 di centrosinistra. Già questo dato dice dell’assurdità di limitarsi ad auspicarne un fallimento. Incredibile e segno della crisi profonda delle classi dirigenti locali mi appare il balbettio e l’eclissarsi, ad ora, di gran parte dei presidenti delle Giunte regionali.
Solo Emiliano – Puglia – la cui Regione è una delle promotrici, e Rossi – Toscana – si sono assunti la responsabilità di una presa di posizione esplicita e di un invito perché si vada a votare.
Gli altri serbano un rigoroso silenzio. Qualcuno, come ha fatto il presidente della Basilicata alla direzione del Pd, si scusa, si dice turbato perché il referendum assume un valore politico. È vero, non riguarda i centimetri di lunghezza dell’erba delle aiuole.
Il problema, al di là delle battute, non è solo quello di veder rivendicato pubblicamente il famoso “io non c’ero e comunque, se presente non sentivo né vedevo”, ma anche una preoccupante attitudine che sembra prendere il sopravvento, per la quale un presidente di Regione non risponde in primo luogo al proprio Consiglio, ai cittadini che lo hanno eletto e che rappresenta, ma è soprattutto interessato ad una attenta collocazione all’interno del proprio partito, ad un’estrema cautela nelle prese di posizione autonomistiche.
Insomma la virtù richiesta sembra sempre più spesso essere quella dell’obbedienza centralistica. Si spiega anche così l’assordante silenzio registrato nel corso della riforma costituzionale, sullo stesso nuovo Titolo V, cioè sulle competenze delle Regioni e sulla funzione dello Stato nazionale.
Sarà il mio vecchio amore regionalista, ma penso che lungo questa strada si può essere chiamati governatori – e la Costituzione non lo prevede – ma si rischia di accompagnare non una riforma seria delle istituzioni, bensì la riduzione delle Regioni a enti amministrativi: più o meno efficienti, ma non protagoniste del rinnovamento, della politica dello Stato né della realizzazione di una democrazia sovranazionale europea.