Pochi giorni fa Achille Occhetto ha compiuto 80 anni. La ricorrenza mi ha suscitato due stati d’animo: uno personale, l’altro politico.
Quello personale, comune a tanti, è una sorta di sorpresa: già 80 anni? Il ricordo, soprattutto nelle vicende vissute in modo intenso, si ferma al loro svolgersi. La memoria con Occhetto si è fissata a quegli anni tra il 1988 e il 1992: la sua guida del PCI, il nuovo corso, la “svolta” per il superamento del partito. Rimane incancellabile la battaglia, forte ma bella, per un futuro politico della sinistra oltre il PCI, il ruolo svolto dalle cosiddette “regioni rosse”: la mia Toscana, dove ero segretario regionale, ultimo del PCI e primo del Pds; l’Emilia Romagna con Davide Visani, troppo presto scomparso, minato da un male che non perdona; l’Umbria con Francesco Ghirelli.
Di interesse più generale è la seconda riflessione: il quasi silenzio sulla svolta di cui Occhetto fu il principale protagonista.
Eppure il PCI era il più grande partito comunista dell’Occidente: il suo percorso storico non è riducibile a semplice fatto italiano. Riguarda la sinistra europea, le sue idee e organizzazioni. Il PCI, del resto, aveva stabilito rapporti con forze decisive del socialismo europeo, in primo luogo con la socialdemocrazia tedesca e con il Partito socialista francese di Mitterrand.
Perché allora questa rimozione, affidata – in pochissimi giornali del resto – al richiamo ad un brindisi di auguri?
Non è solo responsabilità dei media, che peraltro in Italia ce la mettono tutta per farci guardare solo al presente oppure i nostri piedi, a volte diventando poco più che bollettini dei Palazzi.
La rimozione di una grande vicenda non può essere spiegata prevalentemente con la qualità dei media. Vi sono ragioni ben più profonde. In primo luogo la sconfitta storica della sinistra, non solo dei partiti comunisti allineati all’URSS, ma anche del PCI, che pur con gravi ritardi aveva rafforzato la sua autonomia politico-culturale, fino a dichiarare esaurita la spinta della rivoluzione d’ottobre, e degli stessi partiti socialisti e socialdemocratici europei.
La trasformazione di una grande idea di liberazione e uguaglianza in regimi repressivi delle libertà, impegnati in guerre di conquista e nell’affermazione di sovranità limitate, ha reso meno credibile la proposta di società più giuste.
Negli spazi vuoti e nelle pesanti contraddizioni del mondo moderno, si sono inseriti fondamentalismi religiosi, spinte populistiche negatrici della democrazia rappresentativa, sanguinose avventure terroristiche.
La sinistra non è riuscita a dare risposte convincenti né a realizzare per se stessa forme politiche e organizzative adeguate alle ingiustizie e alle disuguaglianze crescenti, in una società globalizzata, attraversata dalla rivoluzione tecnologico-informatica.
In Europa si è ripiegata spesso su antiche certezze, come gli Stati nazionali e un welfare modellato su di essi, mentre la risposta urgente è la costruzione di una democrazia sovranazionale.
Così rischiamo di essere partecipi di un declino, anziché protagonisti della realizzazione di nuove solidarietà internazionali, di un profondo rinnovamento della democrazia, di uno sviluppo sostenibile socialmente e ambientalmente. Per farlo occorre una ricostruzione di valori dell’etica pubblica, centrandoli sulla priorità della persona e sulla non violenza. Ne siamo assai lontani.
In Italia il panorama è ancor più inadeguato. Ha ragione Macaluso, che più volte ci ha richiamato a mettere a fuoco l’esperienza storica del PCI, nei suoi aspetti positivi – dalla Costituzione alla lotta ai terrorismi; dall’impegno per collegare sviluppo, estensione del benessere, diritti delle classi popolari all’azione dei governi regionali e locali – e in quelli negativi: collocazione internazionale, reticenza nell’entrare per tempo a far parte della famiglia socialista europea.
Si è poi aggiunta la stagione di una competizione tra noi, i socialisti, in parte i repubblicani, che – al di là della ripartizione delle responsabilità – ha provocato uno sfinimento nel contributo della sinistra storica alla vita del Paese.
Vi è infine un altro aspetto, che sarebbe banale ridurre a stili di vita: mi riferisco alla scarsa solidarietà tra persone esistente a sinistra.
Lo spiego così: ad una lunga fase, che ha lambito anche le nostre generazioni, di tenuta unitaria ad ogni costo, addirittura occultando differenze politiche, è subentrata quella del “liberi tutti”, di un protagonismo personale separato da responsabilità collettive.
È un percorso che si innesta in una questione di portata più generale: il sol dell’avvenire sacrificava, ingiustamente, la persona a presunti – e inesistenti – destini futuri e progressivi dell’umanità.
Per contraccolpo si è determinato uno squilibrio di segno opposto: l’individualismo dei singoli in alternativa ai vincoli posti dalle esigenze di una comunità. Il rischio è lo scivolare in partiti radicali, neppure sempre di massa, anche attraverso una separazione tra diritti civili e diritti economico-sociali.
L’insieme di queste indicazioni, pur parziali e schematiche, non riguardano il passato: pesano sul presente. Condizionano la stessa vita del Pd.
Rivitalizzare una radice di sinistra è essenziale, per rendere più efficace ed avanzata la sintesi su programma, progetto di società, valori.
Per riuscirci occorre però fare i conti con il patrimonio storico e le sconfitte della sinistra italiana ed europea, non per nostalgia ma per proporre analisi e obiettivi all’altezza delle sfide del mondo di oggi, su democrazia, sviluppo, welfare, diritti e doveri dei cittadini.
Al centro dell’agenda va posta la forma partito: valori guida; ruolo degli iscritti, degli elettori; regole per le minoranze interne; primarie. È una ricostruzione non facile, ma necessaria, intrecciata a quella per rimodellare l’intera sinistra europea.
Per questo mi sembrano lontane anni luce dal reale posizioni di una sinistra interna che viva nel politichese, che operi all’interno di calcoli, equilibri, tattiche, che si concentri su richieste di congressi anticipati, per me difficili a comprendersi. Sbaglierò ma ritengo che abbiamo bisogno di altro.
Altrimenti nel Pd ci si riferirà, legittimamente, al riformismo di Fanfani, ma non anche a quello di Napolitano, Formica o La Malfa; alla figura di Moro, ma non anche a Berlinguer, Pertini, Lombardi; alla lezione di Martinazzoli, ma non anche all’impresa di Occhetto. Non si tratta di pantheon ma di politica, del futuro di una sinistra plurale.